“OL MERICA ”
“Iv conossìt
ol Merica?/ Pìcol co i gambe a archèt, / epör co la chitara / lü I’ fàa sèmper
bèl vèd. / “Sentì,
car i me siòre...” / e i storie büserune
/ i fiorìa col sò estro / sö i fati e sö i persune.”
(Avete conosciuto il Merica? / Piccolo con le
gambe ad archetto, / eppure con la chitarra / lui faceva sempre un figurone. /
“Ascoltate, cari i miei signori…” / e le storie buggerone / fiorivano con il
suo estro / sui fatti e sulle persone).
Il suo nome era Giovanni
Signorelli, ma lo chiamavan Merica ed è con questo soprannome, divenuto
col tempo nome d’arte, che il “musicista ambulante” Giovanni Giuseppe
Signorelli è rimasto nel cuore dei suoi concittadini e dei cultori di memorie
patrie. Era nato a Bergamo il 10
agosto1867, da Antonio, un cocchiere poverissimo che risiedeva dalle parti
di san Tommaso. Oltre alla povertà, aveva avuto come biglietto da visita per
questo mondo un fisico bestiale: era basso di statura, brutto, magro impiccato;
possedeva però una voce da pennuto e gambe ad archetto tipo violino perché
aveva la musica nel sangue (delle gambe).
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, come lo scrittore
Geo Renato Crippa, aggiunge alla lista dei difetti fisici:” il busto
striminzito, un visetto da infante dal quale s’allungava una leggera barba
appuntita e scomposta”; persino la bocca era fuori norma “con le labbra turgide
e rosse, di un rosso rancido, sembrava una ferita da taglio inferta da uno
spadone medioevale”. Esagerazioni? Pare di no, dato che lo stesso Merica si
paragonava ad un porcospino e si dipingeva come “il più brutto dei disperati”: “… de picinì /
a parìe ü resporchì, / Gh’ ìe d’la us a sensa
pèna, / Gh’ ìe ste stórte söl
tentèna, / E pò tate
qualità / De fà ol mónd meraviglià, / Ma adèss mé só
ol ritràcc / Del piö bröt di disperàcc”
(…da piccolo sembravo un porcospino /
Avevo della voce anche senza penne /
Avevo queste [gambe]storte sul tentenna / E tante qualità da far stupire il
mondo / Ma adesso sono il ritratto del più brutto dei disperati).
Tra le tante
qualità vanno menzionate quelle amatorie: c’è chi sostiene che prese moglie ben
sette volte, come Barbablù; ma nella totale assenza di prove certe,
soffermiamoci sulle più documentate qualità professionali. Dopo anni di
apprendistato presso un calzolaio lo ritroviamo strimpellatore di chitarra. A
svelare l’arcano è ancora Geo Renato Crippa:” Da ragazzo, la madre, una buona
donna, affidandolo ad un ciabattino di Borgo Santa Caterina, s’era illusa di
farne un bravo artigiano. Non aveva, in ogni modo, badato che nello stanzino
del padrone facevan bella vista, attaccate alla parete nerastra, due chitarre.
I due strumenti attirarono le amorose attenzioni del giovinetto”.
Anche queste
affermazioni trovano conferma negli stornelli autobiografici del nostro:
“Chèl
lé mé me regórde / i ghe disìa ol Merichì
/ A l’ sunàa mìga la chitara / ma l’ fàa sö i scarpì”.
Più che suonare martoriava le corde di una
chitarra grande quanto lui; solo che le sue esibizioni hanno conquistato le
simpatie di illustri recensori: tra costoro figura Renzo Avogadri, detto
Rasghì perché suonava il violino, che lo ha
ritratto nella poesia Ol Pianù:
“O1
Merica ‘n d’ün àngol a gratà / la sò chitara
e cassà fò i canèi / mes-ciando i sò siglade col bacà / d’ön us is-cèpa
che la usàa: tortèi!” (Il Merica in un angolo a grattare / la sua chitarra
e a sgolarsi / mescolando i suoi strilli col baccano / d’una voce stridula che
urlava: tortelli!).
Il ritratto più efficace, però,
se l’è fatto da sé:
“L’è che ol
ritràcc precìs / del Merica Gioanì / che I’à diertìt
trent’àgn / i sò consitadì. / Impó col fai
vègn gnèch / impó col fai grignà
/ e sèmper a böscàga / de bìf e da maià. / Quando l’ cantàa i disìa: / “Ma sènt chèl Merichì, / l’ ghe pèta tat de léna / che l’ par ü canarì”;/ adèss
invece i vùsa: / “Copél, saltéga adòss, / a l’ canta sto danado / de canarì de fòss”. / Ma mé se gh’ói de fàga?
/ l’è stacc
a mangià i nus / che ‘nsèma töcc
i décc / a m’è scapàt la us. / Però me resta sèmper
/ ol spéret e ‘1 vigùr / e ‘nsèma chèla òia / de bìf de sonadùr”. (Eccovi il ritratto preciso / del Merica Giovannino / che ha
divertito per trent’anni / i suoi concittadini. / Un po’ col farli incavolare /
un po’ col farli ridere / e sempre a scroccare / da bere e da mangiare. /
Quando cantava dicevano: / “Ma sentilo quel Merichino / ci dà dentro così di
lena / che sembra un canarino”; / adesso invece urlano: / “Accoppatelo,
saltategli addosso, / canta questo dannato / da canarino di fosso”. / Ma io
cosa ci posso fare? / è stato a mangiare le noci / che insieme a tutti i denti
/ mi è scappata la voce. / Però mi resta sempre / lo spirito e il vigore / e
insieme quella voglia / di bere come un suonatore).
Merica appartiene alla schiera dei Bosin, dei poeti popolari. Costoro non cantavano, ma ricorrevano allo
stesso espediente per campare. Distribuivano infatti, per quante più feste
comandate potevano, dei
fogli colorati con tanto di vignetta e poesia di circostanza chiudendo il
componimento con i numeri del lotto. Eppure le invenzioni di personaggi
illetterati come il Merica risultano di un interesse unico quando commentano
gli avvenimenti nazionali e locali da un punto di vista genuinamente popolare.
Nel 1916, ad esempio, nei salotti e nei teatri si canta Chèla del Caiser, canzone interventista che fa
scaltramente ricorso al patrio dialetto; il
Merica, invece, gira per le strade “siglando” la Cansù de Carneàl: tutt’altra maniera di
considerare gli eventi bellici. La guerra, per lui, è una scemata madornale,
perché è la negazione dello stare insieme allegramente bevendo, mangiando e
ridendo.
“Spöl miga èss alégher / co i guère che söcét / l’è pròpe öna monada
/ de fà nissü contét./
I turnerà chi tép, / de fà
di sbaracade, / a 1’ turnerà ‘I botép,
/ de fà di grignunade. /
L’è chèsto l’augurio, del Merica Giopì,
/ che l’ turne l’alegréa, a töcc i Sitadì”.
Interessa ancor di più sentirlo commentare la
trasformazione del centro cittadino: attuata per gradi tra il 1919 e il 1930.
In quegli anni venne abbattuto l’edificio in cui si teneva la fiera annuale di
S. Alessandro; scampò solo la fontana settecentesca, quella di piazza Dante,
dirimpetto al tribunale. Si costruì la Torre dei Caduti, vennero innalzati gli
edifici che costituiscono l’attuale centro cittadino; Bergamo di sotto, insomma,
cambiò aspetto. “Ecco una città che ha veramente cambiato volto! Inutilmente
chi facesse ritorno a Bergamo dopo un’assenza decennale andrebbe alla ricerca
del secentesco centro cittadino... L’opera ricostruttrice voluta ed intrapresa
dal Duce il giorno stesso in cui le sue legioni entravano in Roma, 10 anni or
sono, ha finalmente tolto dall’abbandono in cui era stata immeritatamente
relegata, questa nostra città, bella fra le belle”. Ma il Merica non era
d’accordo: “Che diràl
chèl curnisù (Mura) / quando l’vé la primaéra?
/ Vederàl amò i farfale / a
gulà sóta la Féra?”.
Nei suoi versi denunciò anche l’abbattimento del vècc piantù: il vecchio ippocastano del boschetto di S.
Marta, un angolo di verde in pieno centro andato distrutto per far posto “ad
uno straccio di banca”. «In del boschètt de Santa Marta / a gh’éra
ü vècc piantù / per mèt sö öna
strassa d’ banca / i l’l’à mandàt
a rebuldù».
Criticò perfino la Torre dei Caduti benché il Duce in
persona, il giorno in cui venne ad inaugurarla ufficialmente, nel 1924,
l’avesse definita meravigliosa. «Allorquando sua eccellenza Mussolini giunse
a Porta Nuova proveniente dalla stazione, dinnanzi al quadro magnifico che gli
si presentò allo sguardo parve rallentare la sua andatura svelta e marziale,
quasi attonito, così che dalla Torre non staccò più lo sguardo e, giunto nei
pressi di essa, alzò la mano e salutò romanamente. Poi non poté fare a meno di
esprimere con una sola e altamente significativa parola sua impressione ai
vicini: “meravigliosa”». Il poeta d’ufficio, sempre in quell’occasione, aveva
cantato: “Dove più fervida pulsa la vita / spicca nell’aere la torre ardita. /
Sull’alta cuspide qual astro viva / brilla l’elettrica lampa votiva”.
Per il Merica l’alta cuspide non è che una gabbia di
canarini, basta recintarla in modo appropriato: «Sö ‘n sima a la cupola / a gh’è du campanì
/ metìga öna regnada
/
l’è öna gabbia de canarì».
E vennero gli anni tristi e la vecchiaia: «E sö àgn sö la me gòba
/ come i’ föss piö bèla roba». Il timore era
quella di finire al Locàl,
all’ospizio, lui che era “andato” su L’Eco di Bergamo del 23 agosto 1929 per
aver donato ai ricoverati del “Local…la somma di £.24, pari a £1, per ogni
povero presente nella giornata in memoria di un suo amico defunto”.
Morì alla Clementina il 25 novembre 1942, un mese dopo il suo ricovero
deciso con deliberazione municipale: «E cosé üliv copàl
/ Opör mètel al locàl / Sto pòer Merica che ‘l mónd / L’à giràt per largh e tónd?».
Non era un canarino da gabbia
lui, tutt’al più un canarino di fosso [una rana]: “gambestorte
e crapadrécia”,
che aveva cercato con il suo gracidare e
co l’alegréa / de tö vià malinconéa.